lunedì 28 aprile 2014

Imparare dalla storia

Iraq, 2003

Imparare dalla storia che non c’è niente da imparare dalla storia.

Elias Canetti, La tortura delle mosche

La peste di Atene

Da prima avevano il capo bruciante d’arsura, entrambi gli occhi rossi d’interna luce diffusa. Trasudava sangue la gola, dentro annerita, ostruita da piaghe si serrava la via della voce, e l’interprete della mente, la lingua, colava umore sanguigno, indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto. Poi, quando per le fauci la forza del morbo aveva riempito il petto, affluendo fin dentro al cuore afflitto degli infermi, cedevano allora tutti i serrami della vita. L’alito fuor dalla bocca versava un lezzo greve, come odorano nel disfacimento i cadaveri abbandonati. Subito languivano tutte le forze dell’anima e tutto il corpo, sul limitare stesso della morte. Ai mali intollerabili erano assidui compagni un’ansiosa angoscia e un lagno solcato da gemiti. Spesso, notte e giorno, senza mai sosta, un singhiozzo frequente li logorava, costringendoli a contrarre tendini e membra già estenuati. Né per troppa arsura avresti notato in alcuno che scottasse la superficie della pelle, ma piuttosto era tiepido il contatto offerto alle mani; ma insieme tutto il corpo rosseggiava d’ulcere quasi impresse a ferro rovente, come avviene quando il fuoco sacro si spande per le membra. La parte interna del corpo ardeva fino alle ossa, nello stomaco divampava una fiamma come in una fornace. Nessun indumento, per quanto leggero e sottile, poteva dar ristoro ad alcuno, ma sempre e solo vento e frescura. Nei fiumi gelidi alcuni abbandonavano le membra ardenti per il morbo, lanciando il corpo nudo nelle onde. Molti a capofitto piombarono nell'acqua fonda dei pozzi, mentre s’accostavano spalancando la bocca protesa: un’arida sete implacabile, che travolgeva i corpi nelle acque, rendeva pari una gran pioggia a poche gocce. Non c’era tregua al male: i corpi giacevano esausti. La medicina balbettava in muto sgomento, ché sbarrati e ardenti per la malattia di continuo roteavano gli occhi privati del sonno. E molti altri segni di morte allora apparivano: la coscienza dell’animo offuscata da tristezza e paura, accigliata la fronte, il viso duro e stravolto, tormentate le orecchie e piene di ronzii, frequente il respiro o profondo e interrotto, lucide stille di sudore sparse sul collo, rari sputi minuti, macchiati di colore giallastro e salsi, espulsi a stento per la gola da una tosse rauca. Non cessavano di contrarsi i nervi delle mani, tremare gli arti, e dai piedi strisciare su, lentamente, il freddo. Infine, avvicinando il momento supremo, le narici erano compresse, la punta del naso aguzza e sottile, incavati gli occhi, affossate le tempia, fredda e dura la pelle del volto, floscia la bocca aperta, la fronte tesa e gonfia. 
Poco di poi le membra giacevano nella rigidità della morte.

Lucrezio, “La peste di Atene”, De rerum natura, VI, 1145-1196 
(sottile rielaborazione dalla stupenda traduzione di Armando Fellin)